22 giugno, 2007

Samael Flauros














Lunedì 3 settembre. Fa un caldo terribile quest'estate. E' stata una stagione afosa. Sento la maglietta appiccicata addosso.

Alfredo torna in cella. Ha passato il pomeriggio all'aperto, nel parco di questo accogliente centro per l'eutanasia mentale. "Eutanasia mentale" è un termine che ha coniato lui stesso. Mi è rimasto così impresso perchè furono le prime parole che mi disse: «benvenuto nel nostro perfetto centro di eutanasia mentale». Ed ha ragione. Qui si muore lentamente. Si muore dentro, ma è una morte dolce, perennemente drogata. E' come un carcere di massima sicurezza, solo che le guardie usano le siringhe e le pillole al posto della pistola e dei manganelli. Non hanno la divisa, ma candidi camici bianchi. Qui tutto è bianco, qui tutto è luminoso. La luce non si spegne mai, nemmeno di notte. La notte c'è un bagliore opaco, ma non il buio. Il buio è vietato ai "pazzi". Qui, del resto, non si dorme: alla fine si associa il sonno alle urla e ai lamenti.
Vi starete chiedendo perchè io sia qui. Vi starete chiedendo chi sono. Forse non vi starete chiedendo nulla perchè non ve ne frega un cazzo.
Il mio nome è Simone Petrini, sono... ero un agente di polizia, stavo nella "omicidi".
Oggi vi sto per raccontare la verità. Molti di voi non mi crederanno. Morirò entro tre giorni. Non so se morirò prima della scadenza, è possibile. Se solo potessi tornare indietro...
Alfredo è qui dentro perchè ha sparato a 36 persone uccidendone 27. E' entrato di punto in bianco in un ristorante e si è messo a sparare. Quando l'hanno trovato era seduto con il corpo pieno di sangue, sotto shock. Non ha mai ricordato nulla di quel momento. Tutto quello che so me l'ha raccontato lui... è quello che gli hanno detto i medici, gli investigatori e via dicendo. Eppure a vederlo sembra una persona tranquilla. E' normale. Ora ha 54 anni. Ha la faccia da impiegato di banca. Era esattamente quello che faceva prima di entrare qui. E' sempre ossequioso ed educato, sempre gentile. Si incupisce solo quando gli si fa tornare alla mente il motivo per cui è chiuso qui dentro, a quel punto cerca di ricordare, spesso piange. Di notte si agita, nelle poche ore durante le quali riesce a dormire.
Quando entra nella nostra "camera", mi guarda. Cerca di abbozzare un sorriso vedendo il mio volto. «Come è andata?» mi chiede.
«Non voglio parlarne».
«Nemmeno questo ti ha creduto?»
«No, mi ha creduto».
Mi osserva incuriosito, perplesso, come se non riuscisse a capire. Effettivamente non può capire. Lo guardo un attimo, prima di girarmi sul letto e dargli le spalle. Ha un'aria affranta nella sua camicia a maniche corte e i suoi pantaloncini di cotone. Ha la barba di due giorni. Non gli si addice. E' sempre un tipo così pulito ed ordinato. La luce che entra dalla finestra lo prende in pieno volto. Lui ha gli occhi socchiusi. Solo ora mi accorgo di come stia invecchiando. Sembra quasi malato con la sua pelle olivastra. Ha le rughe.

Oggi è venuto a trovarmi un nuovo dottore. Si chiama S. Flauros. Il signor S. Flauros mi sta attendendo nel salottino delle visite. Oggi è stato prenotato solo per me e per lui, tutto il pomeriggio. E dentro c'è un silenzio quasi spettrale. Si potrebbe sentire uno spillo cadere. Quando arrivo, lui sta guardando fuori dalla finestra, nel cortile. Nel giardino ci sono gli altri pazzi, i miei nuovi amici, i miei nuovi compagni. La maggior parte di loro è sempre sedata, i più sono accompagnati dalle guardie in camice bianco. Alfredo sarà sulla sua solita panchina a leggere. E' l'unico momento in cui esce. Fuma e legge. Martin (un camice bianco) l'ha preso in simpatia rimanendo impressionato dalla cultura di questo "pazzo" e gli porta un libro ogni due settimane. Prima gliene portava uno al mese, ma non bastava.
Un paio di camici bianchi mi scortano fino alla saletta e staranno fuori a fare la guardia.
Questo dottore deve essere importante. Ha tutta l'aria della persona importante. Indossa uno di quei vestiti da sartoria, fatti su misura. Gli calza perfettamente per essere una roba da negozio o, peggio, da grandi magazzini. E' vestito di grigio antracite e camicia nera, niente cravatta, ma oggi fa caldo. Ha degli occhiali scuri da sole, sta già fumando e ha già aperto una bottiglietta d'acqua, ora posata accanto ad un bicchiere di plastica sul tavolino.
Quando arrivo, si gira e sorride, aspetta che i miei (o i suoi) angeli custodi chiudano la porta alle loro spalle, aspetta di essere solo con me, fa un paio di passi nella mia direzione, si presenta.
«Il signor Petrini suppongo, io sono il dottor Flauros». Ha una voce calda e suadente e un tono accomodante, calmo, mentre continua cautamente a sorridere e misura i gesti. Mi sta studiando.
Annuisco, lo guardo, lo scruto, ha qualcosa di familiare che non riesco a decifrare. Ma è solo un altro fottuto strizzacervelli a cui hanno dato il mio caso, finchè la mia pratica non verrà archiviata e mi lasceranno in pace e si scorderanno di me.
Mi siedo senza dargli la mano.
«Tutto bene?» chiede, ma non rispondo «La prego, lei è un ex agente, sa come vanno queste cose, io sono qui per aiutarla come meglio posso, mi faccia solo fare il mio lavoro. Lei non è una persona stupida».
«Non sono nemmeno un pazzo, nè un bugiardo, eppure sono qui dentro. E lei è solo l'ennesimo medico che mi crederà un folle non appena ascolterà la storia che ho già raccontato a chi è venuto prima di lei... avrà letto, no?»
«Ho letto, ma ho comunque bisogno che lei mi racconti la sua storia».

Ho ricevuto la chiamata nella notte tra venerdì 17 e sabato 18 agosto. Sono ancora mezzo addormentato. L'unica cosa che ho capito è stata che dovevo sbrigarmi. Il caldo infernale: mi ero rigirato nel letto tutto il tempo, ero appena riuscito ad addormentarmi. La chiamata è arrivata dall'ufficio, dalla centrale. Spari all'orfanotrofio. Mi chiamano direttamente sul cellulare. Era la voce di un uomo, ma non ricordo se mi ha dato informazioni su di lui. Ha detto di recarmi subito sul luogo.
Sono legato a quel posto. Sono cresciuto in quel posto. Ci passo... ci passavo molto del mio tempo libero ...quando ero libero. Sono orfano. Sono cresciuto lì. Sono tra i pochi che, uscito da quel posto, non si è allontanato, forse l'unico. Entrato in polizia ho fatto di tutto per tornare da queste parti, per restituire alla gente di questo posto il bene che mi ha dato.
Ora sto in città per lavoro. Ho... avevo un piccolo monolocale, ma ho sempre voluto prendere un villetta qui sulle colline, di quelle con un po' di terra per farci crescere qualcosa. Avevo dei progetti. Uscivo anche con Alice. Non l'ho più sentita. Ogni tanto mi chiedo se mi pensa. Spero di no. Spero stia bene, che sia tranquilla.
L'orfanotrofio sta tra la città e il paese, subito sotto la chiesa di San Michele, quel vecchio rudere in campagna. Non ci avrei messo più di venti minuti.
Esco fuori dal centro abitato e d'un tratto comincia a piovere. Ricordo che rimasi stupito. Il cielo si era chiuso di colpo, pieno di nuvole, tuonava. Pioveva a dirotto. E ricordo il freddo. La temperatura era scesa all'improvviso. E io guidavo. La strada sembrava così lunga. Non era importante che la visibilità fosse bassa, conoscevo quelle curve a memoria. Eppure non arrivavo mai. Poi ecco la grossa costruzione dell'orfanotrofio. Era un ex convento. E' enorme visto da fuori. Ma è un buon posto per i ragazzi. E ci viene chiunque dal paese a farci volontariato, a dare una mano. Fermo la macchina nello spiazzo, il cancello è aperto. Quando apro la portiera mi rendo conto che ha smesso di piovere. Guardo in alto e il cielo è limpido, pieno di stelle. Sembra tutto così... fermo. Non si sente alcun rumore. L'aria è stagnante e umida e il freddo pizzica sulla pelle. Sembra pieno inverno. Eppure non ci faccio troppo caso. Eppure è tutto così inquietante. Eppure non so nemmeno perchè sono qui, dovrei aspettare che arrivino gli altri. Dovrebbero già essere qui. Forse la pioggia...
E sto già camminando. Il silenzio, non si sente altro che questo assordante silenzio. E il buio. Non si vede altro che buio. Tutto sembra così vecchio e stantio. Non sembra esserci la luce elettrica. Sono a metà del vialone che porta all'ingresso. Un fruscio. Mi guardo intorno, ma non vedo nulla. Da dove arriva? Guardo in aria e sopra l'orfanotrofio, sopra l'intero posto c'è qualcosa che si muove, sono veloci, si muovono intorno e urlano, urlano il silenzio, loro sono il silenzio. Devo entrare, devo entrare, devo nascondermi. Ma dentro è pieno di quello stesso silenzio. Quelle ombre che si muovono in aria. La tromba delle scale ne è piena, fino all'ultimo piano. Non mi stanno toccando. Non mi vogliono. Dentro sembra tutto molto più grande, terribilmente enorme e vuoto. Conosco questo posto come le mie tasche. Conoscono ogni nascondiglio che usavo da bambino quando avevo gli incubi. Padre Giulio era l'unico che riusciva a trovarmi. Padre Giulio è un brav'uomo, mi ha cresciuto. E' il prete della parrocchia di San Michele. Ormai ha più di settant'anni, sebbene non sembra toccato dal tempo. Non si sentono i risolini dei bambini che anche di notte popolano questo luogo, non si sente nulla se non un urlo silenzioso che avvolge tutto, come le ombre, passano attraverso i muri, mi passano davanti, ma non mi toccano, non mi sfiorano. Sono ombre nere e lucenti. Riempiono l'aria e urlano. Le sento scorrere nelle pareti, sul pavimento sotto di me, sopra la mia testa. Sono ovunque, ovunque urlano, è questo posto stesso che urla. Chiede pietà.
Sono al primo piano. Il dormitorio è al secondo. Qui c'è la biblioteca, una sala per i lavori d'arte e un'enorme salone per lo studio che utilizzano anche per le feste. Questo posto potrebbe ospitare 150-200 persone. I bambini, oggi, sono 72. Li conoscono tutti. Età compresa tra i 5 e i 18 anni. Al piano terra, ci sono la cucina, la mensa, un paio di magazzini, un'infermeria. E' qui, al primo piano che comincio a trovarli. Cadaveri, sono tutti morti. Le pareti sono sporche di sangue e del bitume nero che lasciano le ombre quando le attraversano.
Sono morti, tutti morti. Ci sono i corpi di questi ragazzini stesi per terra in pozze di sangue. I loro visi sono sconvolti. Al piano di sopra ci sono gli adulti, le infermiere, qualche volontario e il resto dei bambini. Non si è salvato nessuno. Nessuno. Esamino stanza per stanza, con la pistola in mano. Sono tutti morti e sono già freddi, sono morti da ore.
Non c'è nessuno. C'è solo la morte e le ombre, c'è solo il silenzio.
Invece no. C'è un fragore di vetri in frantumi, c'è un urlo. E' in fondo al corridoio. E' la stanza di Padre Giulio. Corro. Le ombre ora sono agitate. Inciampo nel cadavere di un bambino e mi ritrovo steso sopra un altro corpo esanime. Padre Giulio è seduto alla sua scrivania, di spalle, con la faccia che guarda fuori. Le ombre lo colpiscono, lo attraversano. Si vendicano.
«Padre...»
«Sei arrivato Simone»
«Cosa... cosa è...»
Padre Giulio si volta. I suoi occhi. Non posso scordare i suoi occhi. I suoi occhi pieni di sangue, il suo volto indurito, quegli occhi luminosi di morte, urla e disperazione, solitudine e rabbia.
«Ho sparato agli angeli...»
«E'... è stato lei? Non può... perchè? No...»
«Ho sparato agli angeli... serve un sacrificio»
«Cosa dice? Il sacrificio per cosa?»
«E' tardi...» Alza una pistola e la punta contro di me. Gli sparo. Gli sparo una volta, poi due, poi tre. E poi il suo corpo prende fuoco, lui sta bruciando, davanti a me, da solo. E io sto piangendo mentre il cuore batte forte, fino in gola. E tutto sta prendendo fuoco. Devo correre, devo correre. Devo scappare.
Non ricordo altro.
Secondo il rapporto della polizia la pistola che ha sparato a quei bambini e a tutti gli altri è la mia. Non c'è traccia di alcuna altra arma da fuoco. In totale, nel rogo, sono bruciati 107 corpi. 107 persone sono morte. Mi hanno ritrovato nel parco dell'orfanotrofio. La mia auto a casa.
Sono stato io. Eppure non sono stato io. No, non è colpa mia. E' tutto un incubo. Quegli occhi. Gli occhi rabbiosi di Padre Giulio, nei miei occhi, dentro di me, mi scrutavano, mi tagliavano l'anima, la sezionavano. Ovviamente nessuno ha creduto che non fossi stato io.

«Lei crede in ciò che dice?» mi chiede il dottor Flauros.
«Io... non sono stato io...»
«Secondo gli inquirenti è stata una strage. Un gesto assurdo di follia pura. Lei è fortunato ad essere in questa struttura e non sulla sedia elettrica. In un altro Stato, sarebbe bruciato anche lei».
«Vada al diavolo».
Sorride in un ghigno. «Sa una cosa signor Petrini? Io le credo».
Lo guardo. Lo guardo e non riesco a muovermi. Tutt'intorno a me c'è lo stesso odore di morte, di carne bruciata, di silenzio, di ombre.
Toglie gli occhiali e ha gli stessi occhi. Dottor Samael Flauros.
«Morirai Simone. Tu hai rovinato i miei piani, tu hai aiutato un uomo a morire troppo in fretta. Morirai entro 3 giorni».
Non posso muovermi, non posso. Dalla giacca tira fuori una pistola.
Ride.
«Sai cos'è questa? La prova che sei innocente. Ho sete di morte. Ho sete della tua paura. Eppure non tremi. Padre Giulio mi ha tenuto buono per anni. Ma io ho sete. Ho sete di urla e disperazione. Voi umani siete così stupidi. Avete una terribile paura della morte. Eppure create armi sempre più potenti. Costruite pistole. Oggi le mie stragi sono all'ordine del giorno, sono più semplici. E date la colpa a noi Dei. Ma siete voi a sparare. Nemmeno tu vuoi ammettere la tua colpa. Eppure è la tua pistola ad aver ucciso».
Mi spara.

Al mio risveglio mi ritrovo nella nostra stanza. Devono avermi sedato perchè mi gira la testa. Alfredo sta rientrando dalla sua lettura. Quando entra nella nostra "camera", mi guarda. Cerca di abbozzare un sorriso vedendo il mio volto.
«Come è andata?» mi chiede.
«Non voglio parlarne».
«Nemmeno questo ti ha creduto?»
«No, mi ha creduto».
«Sei stato in isolamento per due giorni».
Non capisce perchè rido. Rido a crepapelle. Mi sono stati dati tre giorni di vita e io ne ho passati due in isolamento. Mi giro di spalle cercando di trattenere le risate e le lacrime, poi il proiettile attraversa il mio cuore.
Sento Alfredo che chiama aiuto, lo sento che piange. Sento la sua paura davanti alla morte. Sento il suo disperato orrore quando mi vede sputare sangue mentre rido. E rido. E rido. E muoio... una dolce eutanasia. Nessuno capirà mai come il proiettile sia finito lì. Alfredo mi riterrà fortunato. «Quelli che muoiono» dice «non fanno in tempo a ricordare».

4 commenti:

Kei-chan ha detto...

BELLO BELLO BELLO.
Oggi mi sono svegliato presto ed ho potuto fare un girettino qui.
Molto bella la storia, quella che ci vuole per iniziare bene la giornata lavorativa XDD

Un appunto pero':
Correggi la parola "uncubi" eppoi secondo me dovevi spiegare, fornendo dettagli minuziosi, che la pallottola entrava lentamente nel corpo...
Figata :D

Ciaooo

Anonimo ha detto...

Sono d'accordo con i complimenti!bravo!
io però ho qualke appunto in + : una ventina di righi sopra "uncubi" ke diceva kei-chan,c'è una "e" a cui mettere l'accento e una "a" senza h :D
cosa ke devi aggiungere anke nel rigo in cui il protagonista finisce di raccontare la sua storia(" a creduto").
ancora complimenti!

Pippi ha detto...

Sì, é vero. Ci sono diversi refusi (troppi!) quindi ora vai e correggi. Mi è piaciuto questo racconto. Bravo, ma fai uno sforzo. Vai a correggerli questi refusi, dai. Con affetto. Giulia.

durk ha detto...

Scusate per gli errori che verranno presto corretti...(quando avrò tempo e voglia di rileggere) ma non vi sembra di essere un po' pignoli? L'ho scritto solo di notte 'sto coso, stavo morendo di sonno e non riuscivo a dormire per il caldo... e ammetto di non aver riletto (Però rileggersi 'sto coso alle 3 di notte... non era proprio il caso!). Si chiamano errori di battitura! Eheh!

Aggiungo io un commento che mi è stato fatto: "Sembra una sceneggiatura di David Lynch... solo che a me Lynch non piace!"

Giusto per far vedere alla gente che non tutti mi dicono cose buone! Ahahahah! Un saluto e grazie, come al solito, di aver letto.

PS: Comunque, a me Lynch piace... anche se qualche film non l'ho capito (Vedi Mulholland Drive... per me è un film che inizia in un modo, poi il regista si rompe e a metà film ne gira un altro. Fonde il tutto in un unico film e lo chiamano GENIO! Non è un genio, è uno stronzo che vi sta pigliando per il culo!)!

NB: giusto per la cronaca, SAMAEL e FLAUROS sono due nomi di demoni, anche abbastanza assassini e guerrieri. Flauros, in particolare, è un demone del fuoco.