27 maggio, 2008

C'è crisi dappertutto

Arturo parte. Va via con due merdallari (metallari, ma merdallari è più giusto) che mi hanno chiamato la mattina per adottarlo, per portarlo via.
Lo sapevo che era una cosa così, una roba di pochi giorni. Sarà che sono bastati dieci giorni per volergli bene, sarà che io mi affeziono più facilmente agli animali che alle persone, soprattutto ai gatti. Sarà che in qualche mia vita precedente dovevo essere un gatto (non che io creda in quella stronzata della reincarnazione). Non so. Ad ogni modo, l'astuto felino, il ricamatore dei tagli sulle mie mani, il mostriciattolo che aveva conquistato letto e cuore di un durk qualsiasi (ma manco troppo qualsiasi) ha trovato casa ed ora non credo che lo rivedrò più.
Beh micio, spero tu stia bene. Se hai bisogno, chiama.

"... If you have to go don't say goodbye
If you have to go don't you cry
If you have to go I will get by..."

Su, gatto, se devi andare, non dire arrivederci, se devi andare, non piangere, se devi andare, sopravviverò.

Ciao Artu'.

26 maggio, 2008

Danno in anno...

Cambio di calendario. Va bene così. Nient'altro, va bene così, solo grazie, è una cosa mia, è una cosa nostra e va bene così.

21 maggio, 2008

Sono fatto a cazzo

Guardo fuori dalla finestra. Ho spento le luci dentro. Ho mal di testa e sto meglio se sto al buio.
Fuori viene giù il cielo. In alcuni momenti sembra che qualcuno si stia divertendo a buttare giù secchiate dal tetto.
Vado in cucina. Al buio, apro il frigo. Prendo del succo di frutta alla pesca. Bottiglia nuova, la sbatto, la agito. Prendo un bicchiere pulito, lo poso sul mobile. Do l'ennesima occhiata in strada, piove da ore, da ieri sera, praticamente non ha smesso mai. Ha diminuito, ora però ha preso un bell'andazzo. Sembra un diluvio. Prendo il succo di frutta, apro la bottiglia, bevo. Guardo il mobile. Vedo il bicchiere. Lo rimetto a posto. Ho la testa altrove.
Fuori continua a buttare giù pioggia a non finire. Cambio finestra. Torno in camera. Il panorama non cambia. Le auto passano veloci sulla strada principale, sfrecciano, spariscono, oltre la mia visuale. Fanno il classico rumore delle auto che corrono sull'asfalto fradicio. Corrono, non c'è tanta gente in giro. Nessuno va nelle stradine interne del quartiere, pochi, molto meno del solito. Il rombo degli autobus si sente ancora di più quando c'è meno rumore in giro.
La pioggia è fitta, gocce grandi di scariche violente si alternano a uno sfreccio continuo di aghi d'acqua. Lo scroscio è continuo.

Mi viene in mente una canzone di Guccini, la canticchio nella mia mente. "E guardo fuori dalla finestra e vedo quel muro solito che tu sai...".
Il gatto gioca. La sera la passo con lui, a lanciargli il cordino, a farglielo rincorrere, a strapparglielo via e ricominciare daccapo. E giù di seguito. Mi piace 'sto gatto, mi ci sto affezionando. Siamo simili, io e gatti. Mi sa che in qualche vita precedente ero un fottuto felino: stavo indubbiamente meglio.
Con Lei, ho litigato. Non ho ben capito perchè. Abbiamo discusso nel pomeriggio, al telefono, cosa che odio. Non è trattabile in questo periodo. Io, alla fine, lo divento meno di Lei. Sticazzi. Non è per vendetta, è che m'incazzo quando non capisco. Mi da contro praticamente sempre, ogni volta che c'è qualcosa che non le va. Sticazzi come sopra. Lei dice che capisco. Invece, no, non capisco. Mi dice cose che non penso. Mi dice cose che non sono. Mi chiedo, se le pensa che io possa avere certe cose in testa, che diavolo di connessioni sinaptiche ha? Sono paranoico, questo è vero, schizzato no.

Ho bisogno di spazio, Lei pure. Non troviamo il giusto accordo.

Il gatto sparisce, lo ritrovo infilato sotto il piumone del letto del mio compagno di stanza. Lo faccio uscire. Non dovrebbe star lì. Continua a stupirmi, trova sempre nuovi posti in cui nascondersi. Si, siamo simili. Spengo anche la luce sul comodino e mi metto sul letto. Arturo mi si accoccola accanto, mi mordicchia la mano, mi lecca. In pochi giorni mi ha ricamato sulle mani una serie infinita di graffi, certe volte ne trovo alcuni che non ricordo quando me li ha fatti. Dovrei smettere di farci la lotta, tanto vince sempre lui.
Dovrei smettere di farci la lotta, tanto vince sempre Lei. E' che io, probabilmente, non riesco a concepire il rapporto con Lei come una sfida.
Accendo la tv senza troppo interesse, non c'è nulla da guardare... come al solito. Quasi sempre non c'è nulla da vedere, quasi sempre, soprattutto col mal di testa, mi frega poco del mondo. Non guardo nemmeno il telegionale.

Tornano un paio di coinquilini, chiacchiero con loro. Fumo, fumo un bel po' di sigarette, l'unica cosa che mi blocca è la noia che mi fa rullare. Sono passato al tabacco per fumare meno, no, non è vero, per spendere meno.
Arturo corre in giro, dormicchia, poi riprende a giocare, si appallottola sul letto mentre facciamo una partita con la playstation. Perdo. Perdo quasi sempre quando faccio le partite con 'st'aggeggio. Mi chiedo perchè continuo a giocarci, sarà il senso della sfida, quel poco che mi è rimasto. Gratto la panzetta del gatto quando segno. Gli faccio il solletico, lui si incazza e mi morde. Poi mi lecca. Non vorrei andasse via. Sono negato nell'uso dei joystick o gamepad che dir si voglia. Io sono il tipo da tastiera. Datemi una tastiera e vi darò il mondo.

Ho freddo. Non mi va di mettermi la felpa. Stringo il gatto che si lascia accarezzare, ogni tanto mi accarezza anche lui. Mi tiene caldo. Mi mancherà quando andrà via. Spero stia bene.

Verso l'una la chiamo. Dice che sta fumando e che poi andrà a letto. Le dico anch'io. Non sappiamo bene cosa dirci. Poi cominciamo a discutere, di nuovo. Lei continua a sparare cazzate. Non riesco a capire perchè. Alla fine, mi sembra che, come di norma nell'ultimo periodo, scazziamo così, senza un motivo, che non lo sappia manco Lei. Ogni volta che le do una motivazione mi dice che non capisco. Ogni volta che me ne dice una Lei mi sembra di aver capito benissimo, ma quando controbbatto non ho capito di nuovo. Forse sto diventando scemo, ma la sensazione è più quella di presa per il culo.
E fuori continuano a scendere litri e litri d'acqua buttati giù dal cielo a secchiate o a mo' di innafiatoio. Semplicemente piove, ora più forse ora più piano. Il traffico è ancora più rado. Le poche macchine corrono, penso all'incidente visto il giorno prima per il quale abbiamo dato colpa alla strada bagnata. Ma la colpa non è della strada se la gente ci corre sull'asfalto in quelle condizioni.
Il gatto mi gironzola attorno, entra in cucina, si avvicina al vetro, mi passa tra le gambe, poi sparisce, lo ritrovo in camera che dorme sul letto dove il mio compagno di stanza legge. Legge un libro che gli ho prestato io, un libro che mi ha regalato Lei. E' un buon libro.
Penso che certe volte non ci capiamo proprio. Forse a Lei non piacerebbe troppo quel libro.
La telefonata si è chiusa con un buonanotte dal profumo di vaffanculo, un ciao impastato d'acido in corpo.

Torno in cucina. Rullo un'altra sigaretta, la accendo. Guardo fuori. Da un lampione esce fumo. Che strano effetto. Poi mi rendo conto che non è fumo. E' vapore. L'acqua riscalda sulla lampadina e diventa vapore. E' un bell'effetto, strano. Per un po' la mia attenzione rimane lì. Poi la sigaretta finisce.

Penso a tutto e a niente perchè in realtà non mi va proprio di pensare, quindi mando il cervello un po' in stand-by. Mi metto a letto. Domenico legge. Io gioco col gatto. Poi anche il gatto dorme. Lo faccio uscire dalla stanza. E mi metto a letto.

Dormo. Mi sveglio presto. Domenico dorme. C'è silenzio. Mi riaddormento. Vado avanti a svegliarmi e ad addormentarmi. Sento i rumori della città che si sveglia, sento Domenico che si alza, torna a letto, poi si mette al pc. Non apro gli occhi fino all'una. Lei mi ha chiamato verso le dieci, ci siamo detti che si saremmo sentiti dopo. Torno a dormire.

Quando mi alzo piove ancora. Il gatto gioca. Le faccio uno squillo, mi chiama. Non discutiamo, ma in ogni telefonata che ci facciamo per dirci stronzate la tensione è tanta.

La casa si svuota. Rimaniamo io e il gatto. Metto su Guccini e ci addormentiamo. Mi alzo, fumo. Scrivo un post senza troppo senso, senza troppe pretese, senza tanta voglia di dire qualcosa, ma con desiderio di sentire il battito dei tasti, che mi rilassa, mi tiene le mani occupate, quache volta mi fa pensare.

Cambio musica, ascolto gli Editors.

19 maggio, 2008

Facce da gatto

Faccia da gatto.


Codesta è la storia di un essere superiore. Dopo ardue, lotte un prode gatto di nome Arturo decise di vincere e di essere il nuovo proprietario del mio giaciglio.
Dopo aver sfrattato me medesimo, ha esteso i suoi territori al letto accanto, indi, ad ogni loco di questa casa. (tranne camera di chi lo mena, bagno, balconi [che di butta giù] e stanzino [ci prova sempre a fottersi i salumi]).
Vietato nulla è al prode felino, che però educato e rispettoso degli altri abitanti della magione, per mostrar la sua natura più brutale, è comodo d'usar la propria vasca di toeletta.
Generoso di affetto, morsi, graffi e slinguazzate, non altro ha da far che non sia darsi le arie, cibarsi, bere e defecare.


Faccia da bonzo.


Saltando, gioca a rincorrere lacci che non servi umili siam costretti a trainar per suo volere e suo piacere. Ma non è questo a preoccuparci, quanto il fatto che ci mangi che qualche assaggio già l'ha dato.
Scherzi a parte, questo è il lieto ospite di una casa in cui non può, ahinoi, rimanere.
Speriamo che trovi un luogo adeguato e tante coccole ed affetto... anche se non troppo in fretta.
Amo i gatti... anche se questo mi fotte il letto... Del resto ci sono abituato (benedette Labbra!).


Faccia di cui non fidarsi.

09 maggio, 2008

Primavera

Quando mi sono svegliato ero in chiesa.
E' un edificio alto, credo una chiesa moderna, perchè non ci sono tutte quelle cose tipo affreschi o statue o cose così. E' come un hangar o qualcosa di simile, cioè... è un edificio alto, di quelli in prefabbricato di acciaio e cemento. Non è una chiesa molto figa. Probabilmente, vista da fuori, direi: "che è 'sta merda? Pare una pagoda preconfezionata e senza merletti che la rendano figa".
Io non amo le chiese, non sono un credente e non sono un tipo da messa, ma l'arte mi affascina (anche se non è che me ne intendo, ma ho buon gusto, almeno secondo il mio "inappelabile" parere). Bestemmio e non ho alcun rispetto per la fede altrui, semplicemente perchè... non m'interessa. Io e dio (come anche io ed io) ci stiamo indifferenti vicendevolmente già da un po'. Io non rompo il cazzo a lui (tanto quando impreco, lui sa che non ce l'ho con lui e che può farsi i cazzi suoi) e lui non rompe il cazzo a me. E, poi, LUI non esiste e, anche se esiste, non vedo perchè dovrei vedermela con LUI, visto che non credo in LUI. Che poi potrebbe tranquillamente essere una LEI. E, forse, in questo caso, la cosa potrebbe anche procurarmi dell'interesse, voglio dire... una dea... beh, avrà un certo sex appeal , no?
Ma torniamo a noi.
La chiesa è grigia, un po' buia, tranne dove entra la luce, dalle vetrate in alto, colorate, a raffigurare sui muri larghi e grigi, figure sbiadite di santi. Ma fuori il tempo deve non deve essere buono, non entra tanta luce e, dei santi, rimane solo uno spettro confuso.
Non ci sono candele. Ci sono solo quelle stupide lampadine a forma di fiamma. Imitazioni elettriche per una realtà che non si può permettere calore reale.
In fondo c'è la croce. Una croce enorme, di legno scuro, che domina sull'altare, col Cristo di metallo. Sembra una persona immersa nel ferro fuso. E sembra soffrire. Cioè, se non avesse quell'espressione sgomenta, se quel viso fosse meno turbato, probabilmente darebbe una qualche speranza in più. Forse sembrerebbe al massimo un tipo rivestito di carta stagnola, più che dare l'idea di uno immerso nel metallo bollente. Ma ognuno porta la sua croce, anche le icone sacre. Rendere più pesanti le croci delle statue, forse, fa sì che le croci di ognuno risultino una carogna più magra da portarsi appresso. Magari il mistero della croce è tutto qui, racchiuso in una filosofia da falliti.
Non ci sono navate. Ci sono due file di banchetti di legno chiaro. Un paio di confessionali che sembrano di qualche secolo fa, scuri e molto meno semplici del resto dello spartano arredamento. Un piccolo parallelepipedo in metallo, vicino ai due gradini dell'altare. Un modo per spillare soldi e pulire la coscienza: una scritta "offerte".
Non un grande altare. Accanto alla tavola liturgica una fila di sedie per lato, dietro tre poltroncine rivestite di stoffa rosso scuro, gli schienali alti, non danno l'idea di essere comode, troni ecclesiastici angusti. La poltrona centrale è un po' più grande. E' tutto molto semplice. L'ara è lineare, senza fronzoli, come tutto, a parte per i confessionali. Ma quelli sono il vero potere. Il potere va esaltato, per incutere timore, per risaltare le tue colpe, per dar loro un peso.
Non sono senza macchia, ma non andrei certo a dire i miei peccati ad un pirla vestito da boia senza cappuccio e che mi dice che tutte le mie colpe mi saranno assolte con dieci ave maria e/o venti pater noster. Conosco mio padre... e nemmeno lui è mai stato un sant'uomo. E non credo certo nella fratellanza dei popoli, soprattutto se prendo in considerazione quanta gente mi sta sul cazzo e quanta ne prenderei a sberle, preti in primis.
Mi chiedo cosa diavolo ci faccio qui, nel mezzo di una chiesa. Mi guardo intorno, per quanto riesca a muovermi. Nelle file di banchetti davanti a me, a destra e a sinistra ci sono persone in ginocchio, che pregano. Figure scure, vestite di nero, ma senza borchie, non come piace a me, non come quando si va a ballare. Più come un funerale.
La gente piange. E' un pianto sommesso, lamentoso, ma senza troppa verve.
La gente mi passa accanto, qualcuno si fa il segno della croce, un prete entra, parla, ma non capisco ciò che dice. Capisco solo che è latino. Io col latino non ci sono mai andato troppo d'accordo. Recita la messa come una litania, una ninna ninna poco entusiasta. E anche il prete nella sua tonaca è un estraneo. Qui non c'è nessuno che conosco, non una figura girata di spalle, non una dei tanti volti senza volto che mi si avvicina.
Dovrei aver paura, ma non tremo, sono calmo, per nulla scosso, solo curioso. Curioso di sapere cosa ci fa questa gente qui, cosa ci faccio io qui. Dovrei piangere? Dovrei ridere? Dovrei urlare?
Vorrei imprecare, chiedere, domandare, ma non lo faccio. Semplicemente osservo.
Mi guardo intorno. Vedo fiori non troppo vivi, dai colori troppo spenti, qualcuno già troppo appassito per essere vivo. Vedo una donna, che mi si avvicina e non è che si capisca molto che è una donna, vedo le panche più vicine a me, vedo i contorni di legno tutti intorno, poi capisco.
Vedo la sagoma della bara, vedo le vene del legno scuro che mi avvolgono, vedo il prete che benedice, sento le mie bestemmie salire fino al cervello, poi più in alto, fino a sfondare il tetto di questo posto. Ma nessuno ascolta, nemmeno io ascolto, non c'è voce, non c'è brivido e mi calmo. Non ho paura, non sento nulla, sorrido. E' uno scherzo? E se non lo fosse? Certo, sarebbe bello sapere almeno come sono giunto fino a qui, come sono arrivato a questo punto, fermo immobile, come riesca a guardare la gente, se ho gli occhi aperti o se li ho chiusi. Solo dettagli, dettagli senza importanza. Non devo avere paura. E non ne ho. Sono calmo. Calmo, senza luce, senza tunnerl, senza anima. Forse è questo che servono i vermi, a cavare il corpo per far uscire l'anima. Ma non credo esista un anima, non sono convinto che esista un dopo.

Poi una voce, un urlo dall'esterno, una voce lamentosa, stridula, affannata, di pianto e spavento. Mi sveglio. La voce continua, sono fuori, sul balcone, il calore del sole di un bel giorno di primavera alle dieci e mezzo del mattino, una brezza serena, una zaffata di smog che risale dall'asfalto fin al quarto piano. Una donna per strada è stata scippata, grida aiuto, un ragazzo sta correndo, prima di essere fermato, quasi linciato, poi arrestato.

Vorrei svegliarmi o riaddormentarmi, ma è tardi, devo studiare.