28 febbraio, 2007

E non te lo aspetti

Giorni di silenzio. Giorni lunghi e corti a rincorrersi. Tante cose da dire, poca voglia di stare a scrivere, poco tempo. Non che non abbia scritto, solo che ciò che ho scritto è ancora a metà, forse solo all'inizio. Prima o poi verrà fuori, quando la mia mente sarà meno asettica che in questo periodo. Troppe cose che frullano ho bisogno di fare ordine e anche di dedicarmi ad altro.
Devo PER FORZA fare qualcosa. Il senso di vuoto è troppo profondo per non essere colmato.

Riprendere le lezioni significa anche stancarsi, camminare tanto, muoversi, cazzeggiare, sfogarsi con qualche buon universitario che ti ascolta e che ti porta un bel CD o un bel ricordo da un viaggio a Londra.


Poi capita che ti ritrovi a seguire il corso di "Laboratorio di Scrittura" tenuto da Roberto Vecchioni. Tu lo guardi. Dici: "ma io questo lo conosco". Rimani un attimo stupito perchè non ti apetti di trovarti Vecchioni a darti lezioni su Sciascia. Non ti aspetti che dibatta tra "bene e male" nella tua aula di università, non perchè lui non ne sia capace, ma perchè per certa genta avresti pagato volentieri un biglietto di teatro, anche se poi non lo avresti raccontato agli amici, almeno non a quelli con l'intelligenza sulla media, quelli che di "Samarcanda" ricordano solo il verso "oh oh cavallo oh oh"... invece dell'ironia della sorte.
La gente è strana, non rispetta più nemmeno la cultura e, alla fine, tutti ci adattiamo a questo stile.
Ripensi, mentre lo senti parlare, a quando lo ascoltavi da bambino e il cantautorato nostrano aveva ancora la meglio sulle tue orecchie abbastanza docili, abbastanza innocenti, ancora in grado di stare ad ascoltare e ora affollate dal rock (praticamente solo straniero) e da quanto di più esiliante dal mondo tu riesca ad trovare. Droga acustica.
E insomma, uno di questi mostri sacri della poesia italiana dei giorni nostri ti sta lì davanti e lo ascolti più degli altri professoroni perchè lui non fa il professorone e perchè ti ricorda quando eri piccolo e l'ironia della sorte e tutto il resto che cantava non lo capivi e, per la verità, manco ti fregava di capirlo perchè la poesia si faceva per far poesia.

Fa strano, voglio dire, Vecchioni che fa il docente, il tuo docente. Poi rimani sempre un po' a guardarlo fumare il sigaro sulle scale senza avvicinarti troppo, senza far capire che lo guardi muoversi perchè t'incuriosisce. No, non solo perchè è famoso. Perchè è più normale di quanto non pensassi. E' tranquillo, scherza con qualche ragazzo meno timido. Fuma il suo sigaro e sorride sotto il sole invernale, troppo caldo per essere un sole di fine Febbraio.
Guardi questo mito che ha scritto "Luci a San Siro" e che ti ha fatto credere davvero di aver giocato con qualche amore passato in mezzo la nebbia e, in qualche modo, cercava di avvertirti a non giocare troppo con i ricordi.
Lo guardi muoversi coi suoi movimenti un po' teatrali, con le sue rughe. Lo guardi e ti sembra più magro e più basso di come lo hai visto in TV. Guardi questo mito della normalità e ti plachi lo spirito per un po'. Rimani tranquillo, beatamente placido nei ricordi di quando eri bambino e te ne stavi steso con il tuo fisichino quasi rachitico con il walkman (quello a cassette) negli orecchi, steso sul lettone dei tuoi genitori, in piena estate, con 40° all'ombra ad ascoltare le MC di tuo padre. E lui, quel mito del professor Vecchioni è lì a cantarti nelle cuffie (quelle a forma di cuffia, non gli auricolari) con De Andrè, Battisti, Guccini, la Bertè, Mia Martini, Mina e un botto di gente che non va di moda più (e non andava tanto di moda nemmeno quando eri piccolo tu, per dirla tutta). E tu stai lì, nella stanza più fresca della casa, al primo piano, nel primo pomeriggio a leggere Topolino o "I ragazzi della via Pál". Insomma, ricordi quella tranquillità di famiglia media e il calore della solitudine che da bambino era solo inventata.

Poi, "BellaNapoli" e "Lollone" ti riportano alla realtà e i ricordi di un attimo finiscono, sorridi.

23 febbraio, 2007

Alta filosofia in chat con Kei-Chan




















...

durk: "Sai quando entri in macchina, lei si mette di 3/4 e guarda lo specchietto retrovisore esterno?"

Kei-Chan: "beh?"

durk: "Tu lei dici: "Che hai?" E lei: "Nulla". E tu le ripeti: "Amore, che hai?" E lei: "Niente". E poi comincia a singhiozzare. E tu ancora più amorevole: "Tesoro, che è successo?" E lei: "Dovresti capirlo da solo"! E tu pensi soltanto: "OCCAZZO, sono padre!"

...



NB: non sto diventando padre.

17 febbraio, 2007

Sintomi di palindromia alchemica

Si sedes non iS

Delirio di onnipotenza o complesso di inferiorità?

Anche Dio ebbe bisogno di scagliare Lucifero negli inferi per sentirsi migliore di qualcuno.

[Dedicato a LE DIABLE SAINT]

16 febbraio, 2007

Quando siamo apparenza

Talvolta nulla giova più del vano idolatrare se stessi...

15 febbraio, 2007

Pensiero metroquotidiano...














Ora sigaretta e poi scrivo...

Quando esci da certi posti e ti ritrovi in strada, hai sempre una sensazione strana. Oggi ho accompagnato un mio amico allo Sheraton, albergone quattro stelle (forse più?), stile super lusso, tanto per intendersi (giusto per chi non lo conosce).
L'emozione di disagio comincia quando entri. Tu: ragazzo incasinato, con la tua felpa con un grosso teschio stampato sopra, che puzzi di canna fumata due minuti prima col tuo amico vestito un po' meglio di te (ma che sembra sempre il secondo coglione nel posto sbagliato. NB: il primo sei tu!), giacca in velluto sformata a coste, jeans strappato che porti addosso da tre giorni perchè è l'unica cosa che ti è rimasta pulita (e pulita si fa per dire), le ALL STARS bucate e stinte (perchè non si dica che non le lavi) che porti da ore, mentre i piedi cominciano a farti anche male, con la barba lunga dato che non hai avuto voglia/tempo di rasarti negli ultimi giorni (quanti? Cinque? Sei? Una settimana?).
Il disagio continua mentre la tipa della Hall sta lì che maneggia con la carta d'identità sgualcita del tuo amico e lo cerca nel pc. In realtà l'ha già trovato da un paio di minuti, ma fa più figo far aspettare un po' le persone, serve a dare l'idea di rispetto snob che si respira tutt'intorno.
Il disagio continua mentre tu stai in disparte e guardi la valigia, con meno circospezione però, perchè lì non la frega nessuno, di sicuro non mister ricco portafogli in abito scuro (con tanto di cravattino nero) che ti passa accanto dolcemente accompagnato da miss culo perfetto (vedi anche tette rifatte e labbra al silicone) avvolto in abito da sera.
La temperatura nell'albergo è minimo sui 25° C, il che è perfettamente inutile, visto che bastarebbe il pensiero di quanto possa costare una notte solo nello sgabuzzino delle scope per far sudare. E poi, cristo, qui c'è gente ricca, il buco dell'ozono e l'inquinamento non sono problemi loro. Che cazzo, qui c'è gente che rimane bella per sempre grazie alla chirurgia plastica, qui c'è il paradiso del denaro, la democrazia governata dallo spreco, qui tutto ha un prezzo, qui nessuno ti guarda dall'alto in basso per il semplice fatto che qui nessuno ti guarda... a meno che non sappia che il tuo portafogli sia più gonfio del suo e con almeno un paio di VISA in più.
Su, rilassati, coglione. Non ti serve sentirti a disagio, tanto nel giro di mezzora sarai fuori da qui dentro, avrai riattraversato la porta automatica a vetri e i due pinguini che guardano l'ingresso ti augureranno comunque buona serata... non perchè a loro interessi, solo perchè li pagano. La cosa strana, per loro, sarà quando tu gli augurerai lo stesso e forse solo il fatto che tu rivolga loro la parola. E questo succederà per quel senso di disagio e la buona educazione che ti hanno insegnato i tuoi. La buona educazione non è abbastanza snob (ndr).
Poi la mente parte con pensieri in perfetto stile Cenerentola (vedi anche Pretty Woman e cazzate del genere), ovviamente al maschile. Cominci a immaginare miss belle tettine della hall, che invece di stare a gingillare con mouse e documenti d'identità, ha in bocca il tuo cazzo mentre ti augura dolcemente una buona serata. Che dolce scenetta.
Poi tu le auguri altrettanto mentre abbozzi un sorriso sospeso tra la malizia, un falso "mi scusi" e corrotta cortesia. Il tuo amico ha fatto un pensiero abbastanza simile.
E andate all'ascensore. E tu sei lì che lo accompagni in una di quelle stanze tutte uguali del terzo piano (ndr, lui è lì per lavoro e, tra l'altro, un lavoro da due soldi, giusto per alzare un po' qualche euro). Eppure anche quel lusso di basso rango ti fa sentire un po' VIP. Ti guardi intorno, giochi come un bambino che gioca a fare il nobile; giochi col tuo amico che fa il tuo stesso gioco.
Poi si fa tardi, ti ricordi che la metro chiude, che domani dovrai sbrigare un po' di cose, avrai da fare, che il tuo amico deve scendere a cena, che sei abbastanza fuori luogo, che sei stanco e avresti voglia di startene a casa tua che si trova dall'altra parte della città e che ci metti un bel po' ad arrivarci con i mezzi. Muoviti.
Scendi giù, ti fermi davanti l'albergo a fumare una sigaretta, seduto su sedie comode e imbottite. Respiri l'aria fredda esterna, l'aria che ancora resta lussosa e pesante tutto intorno, la sigaretta e l'aria di vita normale, in cui, malgrado tutto, hai una gran voglia di rituffarti.
Ed eccoti accontentato.
Niente auto lussuosa. Aspetti il treno della metro. La radio trasmette una di quelle canzoncine stile anni '30 o '40 (che cazzo ne sai tu, manco eri nato?), uno di quei pezzi che ti fanno pensare all'inverno quando è inverno e all'estate nella bella stagione, una di quelle canzoni da caminetto e luce tenue o da tramonto romantico e palme tropicali, un ritmo jazz tranquillo, che ti viene a paranoia se ascoltato tra le pareti grige e puzzolenti di una fermata grigia di metrò. Ti sei seduto proprio lì, sulle seggiole di plastica rovinata della banchina. Ti sei seduto in mezzo a 3 facce anonime che non si sono sedute al tuo posto (come qualche altra anima in pena che gironzola lungo il binario... manco meditasse di buttarsi sotto un treno...). Non ci si sono sedute perchè immediatamente di fronte a quel posto c'è una piccola pozzanghera d'acqua, formatasi dal gocciolare di acqua fetida... che potrebbe tranquillamente essere di fogna, magari piscio. E tu, invece, stanco, speri solo che sia la pioggia accidentale di qualche ora prima. E lentamente scivoli su quel sedile scomodo di plastica dura che non è per nulla anatomico come vorrebbero farti sperare, stando bene attento a non dover badare troppo alle gocce che cadono dall'alto. Ti tieni a distanza. E nel mentre ritorni ad affondare nella pozzanghera della della tua vita.
E intanto cominci a perderti con la mente, cominci a vagare nei tuoi pensieri.
Poi arrivano i vagoni marchiati col fuoco dei graffiti colorati.
Dentro c'è una di quelle studentesse tutta acqua e sapone, carina direi. Sta leggendo i suoi fogli d'appunti. Alza lo sguardo nel vagone semideserto, tu sei lì, seduto su uno di quei seggiolini scomodi uguali a quelli della banchina. Poi alza lo sguardo e ti scruta, fondamentalmente perchè, se ci pensi bene, sei l'unico italiano nel vagone e probabilmente l'aiuti a sentirsi a casa. Poi vede il tuo sguardo assonato e stanco un po' da tossico. Tu ti riprendi un po'. E invece di pensare: "potrei conoscerla", pensi: "ma che cazzo vuole questa?". E le fai lo sguardo da snob un po' scocciato e la cosa finisce lì, col suo vaffanculo mentale, che però ti arriva.
Poi ti metti a guardare un punto fisso sul pavimento mentre cominicia a venirti fame, che si mischia alla nausea che ti provoca l'odore di piscio/chiuso/aglio/sporco/sudore che si respira nella metro (e almeno non c'è tanta gente). Se poi aggiungi che l'autista del treno guida da cani e che odi sentire i freni stridere ad ogni fermata, le palle girano tranquillamente da sole. E sale un po' la paranoia. Un paio di cinesi (o che cazzo sono loro, a me sembrano tutti uguali) parlano ad alta voce. Ci bado poco.
Poi esco dalla metro (le scale mobili bloccate... che bello! Tanto un po' di misero moto non può che farmi bene. E si sale, gradino sopra gradino. Aria fresca, non pura, solo fresca. Per tutte le scale ho avuto paura che l'enorme grassone davanti a me mi rotolasse addosso. Sudi per due scale? Anche io, ma non faccio tutto questo casino e non mi lamento. Lui sarà ubriaco.
La stazione è piena di barboni (che muoiono come mosche nel freddo notturno), pusher, trans, puttane, qualche ragazzino che cresce troppo in fretta in mezzo alla strada, qualche figlio di puttana, un po' di gente che non vede l'ora di rinchiudersi nella sua tana, magari fare un bagno caldo e andare a dormire, un po' di gente "normale", gente che lavora. Tutte persone, che a modo loro, vivono.
L'autobus è lento mentre corre verso casa. Ho sonno, un po' di fame chimica e un gran bisogno di pisciare (causa freddo?).
Finalemente nella mia stanza. Caldo, abitudine, un buon letto. Casa dolce casa. Per quanto non sia lussuosa, per quanto non abbia la moquette di lusso e non sia pulita e disinfettata in stile ospedale (ovviamente sono sarcastico, dato la merda che si vede negli ospedali), per quanto non sia enorme e non abbia i tripli vetri per non sentire il traffico fuori, mi piace per come è. Mi piace perchè la sento mia, perchè non mi sento a disagio.

... Ora sigaretta e poi scrivo.

14 febbraio, 2007

Pensieri sparsi...

"Pensieri sparsi per il giorno di San Valentino 2004.
Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline di auguri per far sentire di merda le persone.
Non sono andato al lavoro oggi, ho preso il treno per Montauk. Non so perchè, non sono un tipo impulsivo. Forse mi sono solo svegliato un po' depresso; devo far riparare la macchina...

Che schifo di freddo su questa spiaggia. Montauk a febbraio. Geniale Joel! Pagine strappate?! Non mi ricordo d'averlo fatto. Sembra la prima cosa che ci scrivo sopra da due anni.
La sabbia è sopravvalutata, sono solo sassi minuscoli.
Se riuscissi a incotrare qualcun'altra. Le probabilità che questo succeda sono sempre di meno visto che non sono capace di stabilire un contatto visivo con una donna che non conosco.
Forse dovrei tornare con Naomi. Lei era carina. Era bello che fosse carina, lei mi amava..."


[Tratto dal film Eternal Sunshine of the Spotless Mind]


In italiano il titolo di questo film è stato malamente reso con "Se mi lasci ti cancello". La traduzione giusta sarebbe qualcosa del tipo "Eterno raggio di sole di una mente immacolata". Poi dici che non siamo imbecilli. Ed è pure un gran bel film. La prima volta ho pianto. Vabbè, si, lo so, fa poco figo, ma non importa.
Oggi sono quattro anni. Quattro anni sono tanti, forse pochi, forse troppi.
Oggi sono quattro anni. Quattro lunghi anni che la conosco. Non la guardo più con rimpianto, non la guardo più con gli stessi occhi, non penso più a lei nello stesso modo e con la stessa frequenza. Eppure ogni tanto mi fermo a cercarla tra i ricordi. E' il mio ricordo più bello.
Il giorno di San Valentino 2004 era la nostra prima "festa degli innamorati" da coppia. Ci frequentavamo da un anno. Eravamo insieme "ufficialmente" da poco meno. Ma lei ha sempre detto che quello "era il nostro vero anniversario", era per quello che ci tenevamo tanto. Noi ci siamo conosciuti il 14 Febbraio 2003. E ancora mi saltano alla mente tutti i nostri casini.
Eppure quando ci siamo conosciuti ci siamo stati così tranquillamente sul culo l'un l'altra. Lei che se la tirava, io che mi dicevo che non era il mio tipo, che poi magari è pure vero... sempre che io abbia mai avuto un tipo.
Lei che si metteva con un mio amico, tutti i casini, lei che lo mollava per me. Io che la veneravo.
San Valentino 2004... Quel giorno ho ricevuto il regalo più bello che mi abbiano mai fatto. E ancora sorrido trasognante se ci penso. Lei aveva raccolto tutta la corrispondenza del nostro primo anno insieme e ne aveva fatto un libro. Quel libro parla di noi, meglio di ogni altra cosa. Parla di quello che ci legava, di quello che malgrado tutto, ci lega ancora, anche se la nostra storia è finita, sempre più definitivamente, da un paio d'anni.
Ora ci sentiamo ogni tanto, continuamente meno. Ogni tanto qualche volta di troppo, giusto per riportare alla mente qualche bell'emozione e rimanere per qualche giorno sotto un tir... con tanto di rimorchio.
Eppure non cancellerei nulla. E' il mio ricordo più bello.
Guccini cantava: "Ogni storia ha la sua conclusione, stessa illusione. Il peccato fu creder speciale una storia normale". Beh, vi assicuro che la nostra è stata una storia davvero fuori dal comune. Magari, un giorno o l'altro ci scrivo un libro... e ci divento pure famoso, perchè vi assicuro che venderebbe.
E per finirla con una frase di De Andrè: "Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati".

Dovrei dedicare questo giorno a Lei e alle sue Labbra. In effetti sarà così. Ma un pensiero, qui sul mio blog di cazzate da due soldi, oggi, almeno oggi, va a lei... e mi piglio la mia dose di paranoia quotidiana.


"MAI TORNARE INDIETRO NEANCHE PER PRENDERE LA RINCORSA".

[Tratto dal film PAZ!]

13 febbraio, 2007

Date da odiare.



















Grazie a Lei e alle sue Labbra...
Grazie per ogni momento passato insieme perchè si sta rivelando del tempo prezioso in cui imparare tanto che credevo di sapere già e che, invece, ignoravo per lunghi tratti.

Grazie a chi mi ha fatto gli auguri e, SOPRATTUTTO, a chi non me li farà.

Racconto in candeline...

Lei è venuta a trovarmi anche stavolta. Ci siamo incontrati come al solito, nello stesso luogo, nello stesso sogno. Tante volte l'avevo intravista da lontano. Tante volte l'avevo incrociata senza capire chi fosse.
Poi fu un vecchio a presentarmela.
Lei bellissima, nel suo drappeggio di manti neri e bui. Eleganza d'infinita bellezza, senza macchia alcuna, col suo sorriso ammaliante e il suo sguardo freddo e triste («"solo"...» - mi spiegò anni dopo - «quello che tu vedi come triste è dettato soltanto dalla grande solitudine»), che sembra risolvere tutto, senza che abbia più alcuna importanza che ogni cosa sia stata. Lei che mi rivolse la parola, senza toccarmi, senza parlare. Muta mi guardava senza timore, spiegandomi con i giochi della sua mente il fato («Il destino» - disse - «è solo qualcosa di incompiuto che molti pensano sia già scritto. Non è così. Tutto è affidato al caos, ordine unico dell'universo»), sebbene io non lo possa ricordare nitidamente o capirne il vero significato prima che giunga il mio tempo estremo.
La fissavo, rapito da tanta avvenenza: i movimenti lenti e sicuri, protetti da veli di nebbia, che risaltavano i lineamenti dolci e sottili, la pelle candida e lieve che risplendeva di luna e lo sguardo vitreo d'argento acceso.
Il suo sguardo te lo senti dentro, sino alle viscere, lo si può sentire che pulsa dentro il proprio cuore. «Mai guardarla troppo a lungo» - così mi disse il vecchio - «rischi di innamorartene e di finire ad attenderla anno dopo anno, giorno dopo giorno, istante per istante» e fu dai suoi occhi sognanti che capii che quel vecchio l'amava già da tanto. E anch'io l'avrei amata, come chiunque l'avesse vista per un periodo più lungo del nulla.
E ora l'aspetto... e ho paura di lei perchè il giorno che saremo sposi dovrò smettere di sognarla. E ho paura di lei perchè il giorno in cui sceglierò di seguirla tutto sarà stato. Forse, però, l'unico istante in cui mi abbraccerà varrà come mille volte ogni sogno.
Anche stavolta le ho chiesto: «E' ora?». Mi ha sorriso lievemente, declinando il mio invito.«Non toccarla mai» - mi disse il vecchio - «o avrei il freddo addosso, non ascoltarla mai troppo, perchè potrebbe piacerti la sua voce». Eppure non ho mai sentito alcun suono. Lei parla dentro il mio cervello, perchè non ha bisogno di alcun verbo.
Vidi quel vecchio morire. Lei era lì, al suo fianco che ne piangeva il funereo giaciglio. Lui invece sorrideva felice. Rimasi stupito. Lei spiegò come al solito: «oggi muore un mio sposo felice».
La paura che abbiamo di lei, l'ha maledetta a rimanere sola per l'eternità.
Questa è la triste storia della dama che temo e che amo.

Filosofia in opera di candeline...















Quanto manca ancora?
Il tempo passa per tutti. Eppure non è importante.
Non conto più i lustri e le lune che si inseguono giorno dopo giorno, fin quando non importerà più a nessuno. Alla fine è lì che andiamo tutti, ineluttabilmente verso il nulla. E tutto ciò che avremo o non avremo fatto sarà rinchiuso nella parola "passato". Molti pensano che sia importante, io, il più delle volte, no. Pensare al passato implica rimpianti che non voglio. Inutile esistenza, che sia ricca di fasti o leggendaria, che sia misera o raminga, che sia normale o psichedelica, prima o poi dovrà finire. E tutto ciò che resterà di noi non sarà altro che un ricordo che si perderà nell'inutilità del tempo, il tempo che scorre. Molti uomini hanno bisogno di credere che dopo il tempo concesso ve ne sia dell'altro altrove o diversamente, che il loro tempo non debba mai giungere e finire.

Il tempo. Qualcosa di infinito a cui l'uomo cerca di porre dei limiti per cercare di non averne.

Fuori piove, mentre un altro anno sta per andarsene.
Fuori piove, mentre invecchio. Fuori piove e la pioggia scorre col tempo, sui vetri un po' appannati della mia vita. Eppure, non ho paura.

05 febbraio, 2007

Storia della porta accanto




















«Sai?» una pausa «l'ho fatto».
«Cos'hai fatto?»
«L'ho fatto. Ho fatto quello che volevo. Ho fatto ciò che dovevo. Sono stata io».
«Cos'hai fatto? Cosa dovevi fare?» Ripetè la voce fuori campo, la voce nella penombra.
«Mi sono ripresa ciò che era mio». Calma. La sua voce calma, che ammetteva la propria colpa, senza sentirla come tale. Sollevata. Senza sospiri, respirando lenta, come se stesse per addormentarsi.
«Ne stavo uscendo pazza. Non dormivo, non mangiavo, non vivevo. No, non vivevo. Sopravvivevo. Sopravvivevo senza viveve. Andavo avanti senza motivi. Che diavolo dovevo fare? E pensare che l'idea me l'ha data lui. L'ultima volta mi ha detto: "che vuoi da me? Il mio cuore? Non è tuo". Si che è mio. Stronzo!». Qualche uccello cantilenava fuori il proprio verso, quasi come un eco un po' troppo acuto.
«Mi rideva in faccia. Si prendava gioco di me. Mi amava, lo sapevo che mi amava. Era lui a non capirlo. Ma ora lo sa» disse. Sorrise un istante, compiaciuta. «Tu capisci, vero?» aggiunse.
«Forse. Forse ancora no. Che è successo?» La voce fuori campo ascoltava nella penombra della camera, sotto il fascio di luce che filtrava dalla serranda quasi completamente abbassata, nella luce tenue e rosea del pomeriggio. Faceva caldo, era umido. Eppure era tutto così imperturbabile nella stanza. Dalla finestra aperta odore di foglie verdi e di sole, odore di fiori, odore d'esterno. Odore libero, senza sbarre.
«Gli ho chiesto» continuò il racconto «Gli ho chiesto di vederci. Ci avevo pensato, ma non credevo di farlo...» tacque un istante per rivedere quei momenti, serie di flash rallentati nel maxischermo al plasma del proprio cervello. «E invece l'ho fatto».
«Sai come vanno certe cose, no? E' che non avrebbe dovuto lasciarmi. E' che doveva stringermi e tenermi con lui, è che me l'aveva sempre promesso» e d'un tratto lacrime prive di suono scendevano, senza che nessuno le avesse chiamate in causa, lungo il suo viso «E' che io gli avevo sempre creduto». Gli occhi lucidi si riempiro di rabbia.
Sorrise disillusa.
«Non è vero. Sono stata io a lasciarlo. Sono stata io a buttarlo via, a farlo andare lontano da me. Ma lui era mio comunque. E io avevo troppo bisogno di lui. Ho sbagliato, ma non poteva aver smesso di amarmi. E lui mi amava, doveva solo ricordarselo. Non capisco perchè non se lo ricordasse più, tutto qui. Volevo solo capire. Volevo che me lo spiegasse. Non poteva gettar via tutta la vita che aveva avuto e inseguito per anni. Non poteva aver cancellato tutto. Non poteva essere cambiato così tanto. E io mi sentivo troppo persa». Si rannicchiò sul divanetto per un attimo, poi ritorno ferma, stesa supina.
Il vestito di cotone color avorio a fiori piccoli e neri le ricadeva addosso, ondeggiando placido nella lieve corrente d'aria che tagliava la stanza. Lei era in mezzo, pareva rilassata, almeno alla prima occhiata, adagiata con le caviglie incrociate e le mani l'una sull'altra, sul ventre, subito sopra il pube, distesa sul divanetto di stoffa rossa, stoffa italiana. Doveva costare molto quel divanetto. Poteva sembrare un cadavere nel suo feretro per nulla economico. Lei era abituata al lusso. Non era ricca, ma non le era mai mancato nulla, nemmeno la possibilità dello spreco. Era sempre arrivata a tutto. Aveva sempre preso ciò che voleva. Sempre.
«Avrei dovuto studiare, preparare un esame bla bla bla di qualcosa di cui non m'importava nulla in quel momento. E' che lui era l'unica cosa a cui riuscivo a pensare. Lo so, lo so, lui era stato chiaro, ma io non potevo non lottare. E poi, cavolo, lui mi ama. Lui mi ha sempre amata, più di quanto non lo avessi fatto io. Semplicemente, non credo che una persona possa cambiare idea di punto in bianco. E poi nessuno è come lui. Mi ha sempre riempita di attenzioni, ha sempre fatto tutto per me. Ha creato l'impossibile» gli occhi le si riempirono di luce «mi idolatrava, io lo so».
«Io ero stupida e non capivo. O forse ero solo troppo in gamba per lui. Non capivo di avere così bisogno di attenzione». Pausa.
«Così ci siamo visti. Gli ho dovuto mentire. Gli ho giurato che non l'avrei ammorbato con il fatto che lo amavo. L'ho fatto venire con una scusa. Gli ho detto che stavo male. E' stupido. Ci è cascato. Ci ha creduto. Credo sia perchè, inconsciamente, sa di amarmi».
«Lui non può fare a meno di me, capisci? Siamo fatti per stare insieme. Ne abbiamo superate tante».
«Ma cosa è successo?» La voce nell'ombra rimase fredda e impassibile, con una curiosità non curante.
«Lui non voleva tornare indietro. E poi ora c'era quella stupida sciacquetta. Stupida cagna. Lei non è il suo tipo. Capisci? Io lo supplico di amarmi e lui mi ride in faccia e con quella stessa risata tra i denti, mi dice che ha un'altra. Una troia, gli dico. Non voglio nemmeno sapere chi è».
«Mi dice che gli dispiace, ma non gli credo. Lo fa di proposito. Non capisce che mi fa male, non capisce che lui è mio quanto io sono sua». Altre lacrime solcano il viso, mentre il ronzio di mosche che svolazzano tra i raggi di luce guasta l'aria densa.
Fuori la città sonnecchia nella vita di ogni giorno, spezzata dalla calma delle ore più calde. «Le persone si passano accanto e non si guardano. Non riusciamo più a sentire il bisogno nitido di essere amati se non quando non lo siamo più. Siamo stupidi. Poi capita che non lo siamo più e ce ne rendiamo conto, ma è tardi, è troppo tardi».
«Mi ha ringraziata, ti rendi conto?»
«Di cosa?» Parlava l'ombra.
«Di volergli bene. Anche se non capiva più di cosa parlavo».
«Poi mi sono persa una attimo. Quando mi sono ripresa mi ha ringraziata di averlo cambiato, di avergli fatto capire quanto amare una persona senza chiedere nulla in cambio possa essere distruttivo e inutile per se stessi. "Amare - dice - non significa non esistere più, ma esistere insieme". Lo so - gli dico, è quello che voglio. Ma lui non mi ascolta già più. Si sta già infilando verso le scale. Sarebbe uscito da quella porta. Quella stessa porta che gli ho sbattuto davanti quando aveva bisogno di me, quando pensavo che mia madre avesse ragione. In qualche modo dovrei sentirmi in colpa, in qualche modo gli ho rovinato la vita, in qualche modo vorrei solo poter rimediare, amarlo come merita, come lo amo, senza più essere stupida». Prese fiato. Nelle ore più calde lei non riusciva a sudare, anzi, aveva quasi freddo, distesa sul divano prezioso, di fronte all'enorme specchio oblungo che imperava nella stanza e inquadrava un'altra lei, un'altra camera, un'altro mondo, uguale e parallelo a quello in cui viveva, un mondo forse migliore. «Lui mi proteggeva» Silenzio. Poi riprese a parlare, mentre qualche motore riprendeva a rombare giù per la strada e qualche ragazzo parlava ad alta voce con qualcuno. Mentre si infilavano i caschi per andare al mare sulla loro moteretta truccata. «Troppo veloce per un ragazzino, troppo rumorosa. Basta una curva sbagliata, magari la smette di vivere. Così almeno lui sarà innocente di fronte al casino della vita. Magari muore felice».
«E tu sei felice?» Chiese la voce nell'ombra, un po' più soffocata.
«Adesso si. Adesso io e lui staremo di nuovo insieme. Adesso lui è morto e io sono morta e quella troia è morta. Lui mi dava le spalle e rideva. Rideva di me, capisci. E avrebbe continuato a ridere con quella troia, quella troietta sciatta e merdosa. Ecco cosa avrebbero fatto, avrebbero riso di me. E che diavolo ha lei più di me? Vuoi davvero sapere cosa? Nulla. E' solo una vecchia di merda. Maledetta puttana. Ma perchè doveva essere mia madre?».
«Stai tranquilla, ora va tutto bene, no?» Sorrise la voce nell'ombra.
«Si, ora va tutto bene. Lui non doveva scoparsi mia madre. Lui era mio. Mio e basta. Lui è mio. Mi diceva di amarmi, lo capisci? Lo diceva in ogni mio sogno. E lei non aveva alcun diritto di prenderselo. Maledetta puttana. E io non vorrei nemmeno essere nata». La ragazza cominciava a urlare e dimenarsi, mentre le mani si perdevano con colpi secchi tra i capelli sempre più arruffati. Accanto a lei i corpi del padre e della madre, sgozzati, mentre il caldo e le mosche si nutrivano di loro.
«Ti rendi conto di essere pazza?» Disse la voce imperturbabile dall'ombra. «Ti prego, voglio aiutarti. Qualcuno te lo deve dire, tu hai bisogno di aiuto» disse la voce senza sbattere ciglio, indifferente, insensibilmente calma davanti alla scena che si prospettava dinanzi a lei, davanti ad una ragazza impazzita che si strappava i capelli davanti a lei, vestita e truccata di tutto punto, col vestito migliore, quello che le piaceva di più, lavata e profumata, perfettamente distrutta.
«Ti prego, lascia che ti aiuti, abbracciami, vieni con me».
La ragazza la guardò. Davanti a lei c'era tutto quello che le rimaneva, l'ultima speranza.
Si mise a correre smettendo di urlare. L'urto distrusse il grosso specchio che le si frantumo addosso. Il suo mondo fantasioso andò in frantumi, si distrusse mentre il sangue sgorgava dalle sue vene e lei lo guardava, distesa, disegnare dolci linee curve tutt'intorno a lei. Sorrise mentre si abbracciava da sola, in se stessa, nella sua mente.

01 febbraio, 2007

Zapping...
















Morto tizio, assassinato caio, sempronio gol. Pubblicità. Bel culo, sorriso. Bel culo. Tette. Culo. Frocio. Orso che mangia da Mc Donald (ok, anche l'orso si può considerare estinto). Cazzata. Cazzate. Militari, governo. Islamismo. Strage. Ratzinger, pastore tedesco, Rex. Lavatrice, omino bianco. Tampax. Caio gol. Troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia, troia. Cartone animato, michiality show, minchiality show, spazzatura, canone, canone, Eva Hengel, Platinet, Berlusconi, la moglie, litigio, fede, Fede, ipocrisia, apparenza, bel culo, labbra, tizia che gira mezza nuda, troia, bella troia. Stronzata, quiz idiota, quiz idiota, telefilm, telenovela, cazzata, soap. Noia, noia, noia. Morto caio, assassinato da tizio per colpa di sempronio. Prete. Maiale, porco. Auto. Sorriso, sorriso, figa. Cartoni animati, telegiornale, cazzata, cazzata. Gente che si pesta, porco. Tizio in camicia inguardabile. Tizio dalla camicia con i baffi. Tizio obeso. Satellite. Ferrara. Rete quattro. Canale cinque. Berlusconi. RAI UNO, RAI DUE, RAI TRE. Cazzata. Berlusconi. Berlusconi. Berlusconi. Moglie di Berlusconi. Berlusconi. Berlusconi. RAI. Cazzata, stronzata. Troia, moglie di Berlusconi. Silvio. Galliani. Ronaldo. Gol. Grasso. Berlusconi. Berlusconi. Berlusconi. Berlusconi. Berlusconi. Cazzata. Canzone figa. Video di merda. Merda. Bambino che caga. Morto. Morto. Morto. Morto. Minchiality show. TROIA.

Porco dio! E poi mi chiedono perchè guardo così poco la tv...

Voglia di monoscopio...